Il giardino incantato di Marguerite - Racconto d'arte



La prima volta che l'ho visto ero nascosta dietro alla leggera tenda della finestra. La sua figura, inconfondibile, ciondolando s’incamminava sul vialetto di casa. Il viso scavato, gli occhi azzurri e i capelli rossi, indomiti, mi ha intimorito. Lo sguardo inquieto, insistente e a tratti sognante, mi ha disorienta e mi ha messo l’animo in subbuglio. 
Da quando il signor Vincent si è trasferito a Auvers-sur-Oise, la vita del paese non è stata più così placida.

Viene spesso a trovare mio padre, il dottor Gachet, medico condotto del paese, che con animo comprensivo si prende cura anche di tutti quelli che mostrano i sintomi di un certo male di vivere. È fermamente convinto che per curare l’animo delle persone, queste debbano parlare, parlare, parlare...Forse perché anche lui dipinge, mio padre ha un occhio di riguardo per gli artisti, e casa nostra, una delle poche abitazioni in muratura del villaggio, è considerata un piccolo museo. Alle pareti delle stanze sono appese tele che ritraggono i campi di papaveri, le serate ai café di Parigi, le gite lungo la Senna, e i giardini… tutti quadri degli Impressionisti.

Casa nostra ambisce a esser un’accademia di pittura, e per questo, anche se non ho ancora vent’anni, posso vantarmi di aver già conosciuto Claude Monet, inconfondibile con la sua barba, un po’ corpulento, che ritrae le ninfee e che si è fatto addirittura riadattare una barca per dipingerle in mezzo all’acqua; e Pierre Auguste Renoir, un tipo con mani raggrinzite e vispi occhi da fanciullo, che dipinge donne burrose intente a fare il bagno nelle fonti dei boschi. Il più malato di tutti è il signor Pissarro, che ama posizionare il cavalletto agli incroci di Parigi, sotto il sole e sotto la pioggia e ritrarre la vita della città. Mio padre gli prescrive spesso alcune tisane calmanti. E la mia lista potrebbe continuare…Ragion per cui ho la certezza che i pittori siano tutti un po’ strani. Vedono il mondo in un modo diverso da noi persone comuni, ed è proprio il loro esser artisti a renderli così.

E il signor Vincent non fa eccezione! Anzi, sembra il più strano di tutti. Alcune volte si trova a suo agio a parlare con mio padre per qualche ora, altre volte s’inalbera per una parola, uno sguardo, e così corre via, come se si fosse ricordato d’improvviso di aver un appuntamento importante, e invece va a prendere cavalletto, pennelli e colori e s’incammina nei sentieri verso i campi.
Ricordo la prima volta che è venuto a trovarci: mio padre, tutto orgoglioso, gli ha mostrato la sua collezione, illustrandola quadro per quadro. Ho notato che il signor Vincent era spazientito. Non si deve spiegare un dipinto a un artista. Ma mio padre non ammette eccezioni: si vanta con tutti della sua collezione, e non dice a nessuno che è diventato collezionista per forza. Ogni artista che ha curato lo ha ripagato con una tela, mai con denaro. Avete mai visto un pittore pagare il conto? I pittori, quando sono in vita, non hanno mai denaro per nulla, se non per i colori.

Ogni tanto, sul fare del vespro, mio padre e il signor Van Gogh si siedono sotto il portico. Porto loro una limonata fresca mentre discorrono, anche animatamente, e poi mi prendo cura delle piante e dei fiori delle aiuole. Indosso il mio cappello di paglia a tesa larga e il vestito bianco leggero per alleviare la calura. 
È giugno. L’estate è appena cominciata ma io sono orgogliosa del mio giardino in piena fioritura: un’esplosione di rose bianche e calendule paglierine, cespugli verdi dalle venature azzurre che riflettono i ritagli di cielo tra le nuvole chiare, mentre tra le aiuole basse spicca il fiammeggiare cupo dei cipressi.
Ho scorto più volte su di me lo sguardo del signor Vincent mentre sono immersa tra i fiori.

Tra qualche giorno compio 20 anni, e mio padre ha chiesto al signor Vincent di farmi il ritratto, dicendo: “Un ritratto in posa, come si conviene a una giovane rispettabile di buona famiglia. Al pianoforte, forse...”.

Le sue parole mi hanno costretta ad accomodarmi e ho cominciato la posa svogliatamente. Faceva caldo, l’aria stagnate lasciava immobili i tendaggi. Si profilava un lungo pomeriggio, in stretta compagnia del signor Vincent, e questo mi rendeva inquieta. Non fraintendetemi. È un uomo educato, ma la sua indole imprevedibile increspa la sua gentilezza, pronto ad esaltarsi e inalberarsi con facilità, come il vento quando cambia direzione. Nella sua arte, che non è simile a nessuno, infonde tutto questo tormento e sento diluire dolorosamente il suo spirito nei colori. Per questo sono certa che diventerà famoso e per questo la sua presenza mi mette a disagio.
Mi hanno spesso considerato una ragazza originale, che ha studiato e che vorrebbe esser indipendente, che ha grandi sogni, puntualmente stroncati dal conservatorismo di mio padre. Ma di fronte al signor Vincent la mia smania d’avventura ondeggia, come il pendolo, tra desiderio e ripulsa, in balia della sua grandezza e nel terrore del suo baratro. 
Di certo ha percepito il mio disagio e mi ha esortato:
“Suonate per me”.
Istintivamente ho scelto Chopin, e chiudendo gli occhi il mondo è svanito e il tempo è volato. Prima che riaprissi gli occhi, quando la musica è terminata, il signor Vincent è corso via, come una furia. Il giorno dopo è ritornato. Mentre consegnava il ritratto nelle mani di mio padre, l’espressione del signor Vincent non era compiaciuta del risultato quanto quella di mio padre che già pregustava di appenderlo nella sua galleria. È un ritratto intenso, non felice, perché ho un’aria malinconica, che ben si addice a Chopin. 

Sono passati alcuni giorni senza che ci fossero ulteriori incontri. La vita ad Auvers-sur Oise non offre molti svaghi. Trascorro i pomeriggi in giardino, mentre mio padre legge nel suo studio o esce per le visite a domicilio.
Se sono sola, come oggi, curo e raccolgo le rose. Mi sono sentita osservata, e da sotto le falde del cappello l'ho scorto. Vincent era fermo al cancello, immobile, intento a guardarmi come preso da un ricordo di quello che non avremmo vissuto mai,  perso in una visione che in questo preciso istante è divenuta anche mia. 
Dopo un tempo indefinito mi ha raggiunto. 
“Marguerite, mi siete molto cara”.

Ha lodato la bellezza della mia gioventù, il mio carattere e lo spirito fiero che sente fremere sotto la superficie placida del decoro imposto da mio padre. Le sue parole mi hanno rapito. Ero immersa in un vortice di possibilità, atterrita e attratta da un ventaglio di destini che in quel momento avrebbero potuto realizzarsi tutti con pari possibilità.

Mi ha preso le mani e le ha strette insieme alle sue attorno alla cornice di un quadro. Ho stracciato l’involucro e la tela è apparsa come un’ode all’estate che si schiude nello sbocciare dei fiori. La mia candida figura fluttua tra i verdi, gli azzurri e la luce intensa che permea ogni colore. A ben ascoltare, si sente un inno d’amore posarsi di petalo in petalo, una poesia provenzale diffondersi intorno, ed io, nel quadro, mi sento la principessa di un giardino incantato. 
"Vi ho sognata come vi vedo ora. E vi ho ritratta a memoria".


Vincent Van Gogh (1853-1890), Mademoiselle Gachet nel suo giardino di Auvers-sur-Oise, 1890
Link all'opera Musee d'orsay

Commenti

  1. Bellissimo racconto per una bellissima pennellata di cultura da imprimere nella tela della propria conoscenza. Grazie per la conferenza di oggi a Monselice.

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